mercoledì 6 dicembre 2006

Orizzonti


Ho un budget limitato di minuti e secondi che posso spendere coltivando amicizie, interessi, a volte qualcosa di più, a volte rancori... devo solo scegliere cosa, devo rispettare le posizioni, le priorità. Ho sperato e mi sono illuso che la distanza, e l'assenza fisica e di tempo non arrugginissero i complicati meccanismi dei rapporti tra le persone. Ma non è così, e lo so, ormai. Non mi illudo, non pretendo che le cose siano come sono state qualche settimana fa. Il contratto va continuamente firmato e controfirmato, sembra che scada, soprattutto rapporti di questo calibro, vanno costantemente nutriti con attenzioni, affetto, fiducia estrema. Sbaglio?
Non sto parlando di belle amicizie, di amicizie superficiali, o di amicizie vere. Sto parlando di persone uniche che una volta trascurate si perdono. Magari per sempre. E sono persone davvero uniche, persone che anche senza guardarle negli occhi, insegnano ed imparano e che diventano parte di te. Persone con una formidabile intelligenza e tanta capacità di leggere tra le righe, persone che comunque vadano le cose lasciano il segno, persone che senza batter ciglio aspettano settimane senza aver notizie. Persone per cui nutro una dose di rispetto prima sconosciuta.
Che dire di questo percorso per Roma?
Non ha un odore particolare e nemmeno un aspetto particolare. Quando si è felici e se ne conosce la ragione, si è ancora lontani dall'essere arrivati a Roma. Io sono ben lungi dall’aver trovato la felicità, quindi il mio percorso non è nemmeno iniziato, in verità. Così accetto ogni genere di consiglio e suggerimento, spontaneo o ragionato, mappe e scorciatoie e rotte di qualsiasi tipo. Per terra, per mare ed anche per aria.
A proposito d'aria, io mi sono deliziato un po' per il cielo.
Amo volare. Volare è una buona scuola di vita. Quando si pilota un aereo qualsiasi gesto che si compie ha una ripercussione su tutto il resto. Per esempio, se si compie una virata l'aereo rallenta e perde un po' d'altitudine, perchè il motore abbassa il suo regime.
Per un buon atterraggio si deve cambiare il modo di pilotare: invece di controllare la velocità col motore, la si deve controllare con gli alettoni.Invece di controllare l'altitudine con gli alettoni la si deve controllare con il motore. Agli inizi, pilotare un aereo sembra una specie di cacofonia insormontabile. Si devono fare da cinque a sette cose contrarie allo stesso tempo.A forza di addestramento ci si abitua. Si arriva finalmente a compiere dei piacevoli e rilassanti voli in maniera naturale ed armoniosa. Si impara che ci sono diversi modi di virare con un aereo, diversi modi di farlo salire e scendere di quota.
E' una scuola potente. Quando voli non ti passa per la mente di chiederti cosa fai in quel posto a quell'ora del giorno, che (poi) non ci sono risposte, nessuna risposta, (tant'è) che potresti essere in tanti viaggi diversi in quel tempo, in un mondo qualunque, che (tanto) c'è solo da tenere d'occhio l'orizzonte, quello vero e quello artificiale (devono collimare).
E non c'è bisogno d'immaginarselo in cielo, l'orizzonte.
Va bene anche la strada sulla quale sei in cammino.


venerdì 1 dicembre 2006

vecchi castelli





La vecchia nera s’arrampica e romba ch’è una meraviglia, coi cucchiaini della sua iniezione meccanica che si bevono benzina a garganella, derapando con la trazione posteriore ad ogni curva e schizzando sassi e breccia tutt’intorno, mentre mi destreggio nell’evitare agli ammortizzatori le pietre più grandi ed i solchi più profondi. Tengo il volante con finta noncuranza, ma mi diverto, ed anche parecchio. Qualcuno m’ha detto che questo sentiero che s’avvolge salendo è un tratto della Francigena e che il castellaccio era una specie di ostello per pellegrini sulla strada per Roma.
Grazie Qualcuno: non me la potevo perdere un’occasione così.
- Certo, la strada è un po' ridotta male, ma mica si devono far le corse. -
Cuore Nero nemmeno mi risponde. Chissà cosa le passa per la testa.Evito le buche e le scosse di quello che dovrebbe essere un sentiero e che invece è diventato il letto in discesa d' un torrente in secca. Giro intorno all'ultimo tornante della collina sollevando un polverone visibile per tre giorni ed arriviamo al castellaccio.
Non si vede anima viva in giro.
Parcheggio la nera sotto un olivo che deve aver visto il Granduca Canapone all’inaugurazione della Fonderia. Il castello sembra spuntato dalle rocce colore dell’ocra su cui è posato e deve avere la loro stessa età, tanto è decrepito. Ma non è desolato, perchè il giardino all’interno delle mura è in fiore e ben curato. Un paio di cipressi, una bella quercia, alcuni olivi centenari danno riparo a pettirossi e capinere che svolazzano da un albero all'altro mentre qualche gatto sospettoso fa capolino, incuriosito dal trambusto che il nostro arrivo ha provocato. Cuore Nero s'ammansisce e schiocca bacetti al vento per richiamare i mici, ma queste svenevolezze di città i gatti dei castellacci non le conoscono, e la guardano un po' stupefatti, mantenendo le distanze di sicurezza.
La chiave è in un vaso da fiori accanto alla porta, aveva detto quello dell’agenzia, quasi in tono di scusa, porgendomi anche una fotocopia con le istruzioni per arrivare in cima a quel poggio.
Ed anche del castello, c'erano le istruzioni. Girate sempre a sinistra, man mano che salite le scale. E cercate di non perdervi.
Cuore nero non aveva aperto bocca, ma si era impadronita delle istruzioni, ed ora la seguo attraverso un dedalo di scale e corridoi annidati gli uni sugli altri. Moriremo qui d’inedia, lo so.
I soccorsi non ce la faranno mai a trovarci, anche se abbiamo i cellulari, penso.
Da fuori, il castello non sembrava così contorto e nemmeno così grande, ma Cuore Nero avanza decisa, consultando ogni tanto la cartina ed io le incespico alle calcagna per il timore che se mi separassi da lei, non ritroverei più la strada nè per salire di sopra né per ridiscendere di sotto. Mucchietti d’intonaco staccatisi dai soffitti e dalle pareti sono sparsi su una sbiadita guida che una volta doveva essere rossa. Chissà se il padrone di casa conosceva tutto gli angoletti della sua magione. Ne dubito. Cuore Nero fa da navigatrice e borbotta sotto voce. Giriamo a sinistra e poi di nuovo a sinistra e ancora a sinistra. Improvvisamente provo una sensazione familiare, una specie di déja-vu.
E’ come quando seguivo mia nonna con la sua acconciatura a cipolla che incombeva su di me anche a distanza. Eravamo insieme da qualche parte ma non so proprio dove, ed ero ancora piccolo. Penso, mi distraggo e perdo la scia di Cuore Nero che fa capolino dietro l’angolo di un corridoio. Sbrigati, mi dice, che devo fare pipì. Sto per ringraziarla, visto che sono le prime parole che pronuncia nella giornata, ma mi fermo in tempo.
Dove pensi di farla, le chiedo? Se non trovo un bagno la faccio qui seduta stante. E mica siamo a Versailles, le rispondo, potevi farla fuori, prima d’entrare. Mi guarda e mi odia, ma tanto poi le passa. Senza sapere come, siamo arrivati in un salone vasto come un cinema da duecento posti.
Ci soffermiamo un attimo sulla porta e poi entriamo, guardandoci intorno.
La parete a destra della porta è per metà occupata da un albero genealogico, quella a sinistra da un gigantesco camino. Io mi fermo lì davanti. Cuore Nero invece s’infila in una porta piccola e stretta sulla parete opposta e sparisce. Mia nonna da qualche parte alle mie spalle, raccoglie le fiammelle con una paletta ed una scopa. Qualcuno dovrebbe metter fuori quel cane. Non è abituato a stare in casa. Ed il penultimo dei suoi figli, reduce dalla prigionia, se la prende a male per il cane, e la rincorre per tutta la casa con il coltello in mano. Sono mesi che aggredisce la gente in strada, é ritornato dalla guerra e dalla prigionia ombroso come un cavallo pazzo. Appena lo guardano negli occhi o s'immagina che lo facciano, si scatena e visto che tirava di boxe nei medio-massimi prima di andare a finire ad El Alamein, sa anche come fare male. Con mia nonna si vede che non gli bastano le mani.
Forse la nonna doveva misurare le parole per non urtare la sua suscettibilità. Non si mette fuori il cane, e che diamine! Lo scherzo del coltello prosegue in strada, con la nonna che fugge gridando m’ammazza! ma il reduce fortunatamente viene bloccato da una decina di portuali che partecipano al solito torneo di briscola e tressette in una bettola lì vicino. Lo mettono in mezzo e lo fanno nero, con sommo gusto, data la sua fama di fascista, paracadutista e picchiatore. Poi arriva l’ambulanza, un rumoroso e fumoso furgonaccio verniciato male di bianco per coprire il verde dell’US Army. Lo imbracano in una camicia di forza in quattro e quattr’otto. Lo aspettano un bel letto di contenzione ed una bella serie di elettrochoc. Lo scherzo gli costa una decina d’anni al manicomio e gli costa anche una moglie. Un’infermiera del manicomio, una donna che sa il fatto suo e quel che vuole. Firma i documenti necessari e se ne prende la responsabilità. Vedi come va il mondo a volte.
Il fuoco del camino proietta ombre di figure scure sulle pareti e guizza di riflesso sui volti della gente accanto ed intorno a me. Ma quando li fisso quelli distolgono lo sguardo. Ma prima sono stati loro a fissarmi, ne sono certo. Il calore del camino mi picchia sulla nuca mentre il crepitìo del fuoco mi culla. Metà del corpo brucia e metà è gelato. Inquadrata dalla porta-finestra più vicina a me c’è una collina tozza e curva come una specie di molare; un fil di fumo si alza di lassù. Chissà chi ha acceso il fuoco. Era così che ti beccavano alla macchia, seguendo il fumo dei fuochi, dice uno lì accanto. Ma questo è Libero, lo zio partigiano, il terz'ultimo figlio della nonna. Ma non era morto?
- Fatta. –
- Eh? –
- L’ho fatta. C’è un bagno spet-ta-co-la-re. Ha la porta come una cassaforte della Banca d’Italia. Ma che hai? – mi guarda piegando la testa di lato.
- Perché? –
- Hai un’aria strana, come se avessi visto un fantasma. -
- Questo salone. Non so. Mi sento strano, hai ragione. –
- Allora usciamo, andiamocene, no? -
- Sì.Andiamo. -
Sulla porta mi soffermo per dare un’ultima occhiata, ché m’é parso di sentire un brusìo.
Macché brusìo. Le correnti d’aria, le vecchie travi percorse da milioni di tarli, le pareti che si rigonfiano e l’intonaco che si sbriciola. I vecchi castelli respirano come vecchi e catarrosi fumatori.
Usciamo fuori ch’è buio pesto. Non c'è niente che faccia distinguere un’oscurità dall’altra eppure sento quel gran peso che mi s’era attaccato addosso nel salone, scivolar via.
Ci giurerei.
Quel camino aveva il fuoco acceso.

presente!





Appoggio i gomiti sulla sbarra della sponda inferiore della branda e ti guardo, coi miei pugni chiusi sulle tempie ti guardo. Non so se ti sia chiaro il messaggio che i miei occhi ti stanno inviando. Gli altri non se n’accorgono, hanno il loro cristallino velato dalle lacrime, e si sa che le lacrime distorcono la realtà.
Ci siamo. Siamo agli sgoccioli. O meglio: tu sei agli sgoccioli, quindi dovrei dire peggio? Lo sai tu e lo so io. Carogna, maledetto schifoso, pezzo di merda, hai voce abbastanza per far voltare tutte le teste in direzione del tuo letto. Continui a offendermi ed il tuo odio schizza fuori da due pupille che sembrano chiodi. Vorresti infilarmeli nel cuore come ad un maiale, è questo che pensi, vero?Ci sono intorno a noi persone che fingono che così non sia. E' sicuro che ti amano. Piangono senza singhiozzi, non vogliono che tu capisca di essere alla fine dei tuoi giorni. Guarda che non ti guardo negli occhi per prendermi gioco di te. Ti guardo negli occhi perchè mi domando cosa ci faccia io qui, in questa stanza d'ospedale, tra queste persone che frignano. Non sento niente. Niente che si muova dentro di me. Ho solo voglia di andarmene a fumare una sigaretta, ch'è già troppo tempo che non fumo. Io stento a credere che qualcosa ci leghi. Hai capito, sì? Mi domando cosa ci sia di vero nelle migliaia di pagine che affermano la forza della voce del sangue. Io sono la prova vivente che sono tutte falsità. Il sangue non ha voce. Ilsangue di per sè non ha sentimenti.
Il sangue è solo rosso.
Il sangue è caldo.
Il sangue nutre.
Il sangue è cibo per il corpo. Per l'anima ci vuole ben altro. La parte della mia anima che ti conteneva, si è prima intorbidita, poi è marcita. Gli enzimi dell'odio se la sono smaltita tutta. Ora lì c'è solo il vuoto, una specie di buco nero, una specie di tubercolo. E non m'importa se mi guardi come se volessi uccidermi. Di occhiate così, me ne hai sempre rifilate tante. Così tante che mi ci sono abituato. Non mi fanno nè caldo nè freddo.
Mi annoia tutta questa gente intorno che s'immagina chissà che cosa, dato che non sono al corrente o fanno finta di non esserlo o si sono dimenticati di tutto, dato che non li riguardava da vicino. Qualcuno mi guarda come se mi volesse consolare. Non darti pena, ci dovevi pensare prima, adesso è troppo tardi, non lo vedi? Maledetto bastardo, vigliacco, sibili a denti stretti
e mascelle strette, continui ad offendermi ed il medico si sente obbligato a dirmi che è colpa delle sostanze che ti hanno infilato nel corpo attraverso le vene. Ed allora perché offende solo me? gli chiedo, con tutta questa gente che ha intorno. Il fatto è che lui non conosce mica tutta la storia. La conosciamo solo io e te. In ‘droga veritas’, presumo. Sei agli sgoccioli, ormai, ma sento che quel che ti fa più rabbia non è tirare il calzino, ma l’impossibilità di darmi un’altra delle tue memorabili lezioni con knock-out finale.

Sono passati anni, da quel giorno. Sei là, da qualche parte in quel vecchio cimitero sulla collina, quello dove andavo a fare scorribande cogli amici. Che ricordi, ragazzi.
Si gode una bellissima vista, da lassù. Si vede tutta la valle e il Golfo si apre nella sua interezza e bellezza da sud ad ovest, facendo da cornice alle isole dell’arcipelago, azzurre nell’azzurro. Al tramonto, il sole brucia il paesaggio coi rossi fiammeggianti. La Stella Maris appare subito, ancor prima che il sole scompaia del tutto.
Non sono mai venuto a trovarti, al cimitero, è una specie di giuramento che mi sono fatto il giorno che te ne sei andato. Ma non ho mai smesso di pensarti. Non mi rendo nemmeno conto perchè tu mi sia sempre intorno. Ci siamo lasciati peggio delle bestie feroci che si sbranano nella lotta per l'ultimo brandello di carne.
All’appello rispondi sempre: Presente.
Come mai sento sempre la tua presenza? Non la tua mancanza. Presente..? Non dirmi che vuoi venire a Roma con me?
Non lo sopporterei.