giovedì 29 gennaio 2009

uomini e serpenti


chi sale le scale strisciando
chi è nascosto dietro la porta
chi singhiozza nel buio senza posa
chi sospira in quella stanza


« I morti non si lavano i denti. I morti non hanno paura del buio perchè vivono nell'oscurità. Il bosco di notte non è sicuro, a meno che non si sia morti».
C'è chi cerca di scrivere una storia e la vorrebbe chiamare la Storia del Camino.
La storia racconta delle Voci, di una bimba che vedeva i Morti e ci parlava. Che fingeva di essere morta per non doverli vedere e non doverci parlare. A volte però stava seduta in mezzo a loro a gambe incrociate sul tappeto azzurro cielo. Insegnava loro a giocare a carte con un mazzo a cui mancavano il settebello e l'uomo nero. Barava, naturalmente, e vinceva sempre lei.
« I morti stanno alzati tutta la notte, quando si è morti fa sempre un freddo cane ma a volte piove e bisogna stare buoni», diceva. Anche i morti però si perdono nel buio, allora hanno bisogno di qualcuno che li guidi, che spieghi loro la differenza tra la luce ed il buio e «non è una cosa facile».
Difficile dire quanti anni hanno i morti e la casa non è stregata e nemmeno abitavano qui prima. Sono attratti dalle persone che li vedono ed hanno sempre bisogno di qualcosa.
« A volte sono veramente impiccioni, sai? però in bagno non ce li voglio. Devo spegnere la luce per non farmi vedere. Uno mi ha detto che è morto 182 giorni fa e mi ha detto anche di stare attenta ai serpenti velenosi», così viene di domandarle perchè, «spettri e serpenti hanno tutti un pessimo carattere, ha detto, « stai lontana dalla soffitta e dal bosco»,
La scala che porta alla soffitta è stata chiusa a chiave. Nessuno si ricorda di andarci. A volte si sentono strani rumori venire di lassù, specialmente nel silenzio della notte. Tegole che si spaccano, oggetti che cadono. La logica dice che siano i topi, le civette e forse anche i serpi, ma nessuno si ricorda mai di andare a controllare.
L'estate scorsa, ti ricordi? il serpente nascosto in un buco della parete della casa a quattro metri da terra, ha preso al volo un pettirosso ed è sparito chissà dove. Era bello grosso ed il buco gli consentiva appena di affacciarsi. Il pettirosso svolazzava curioso davanti al foro nel muro - forse aveva visto qualcosa muoversi lì dentro? - quando la testa del rettile è scattata fuori come una tagliola e le sue fauci lo hanno agganciato. Un attimo è tutto era finito. La testa del serpente era già un dubbioso ricordo. Un paio di piccole piume sono cadute lentamente a terra. Il buco è stato coperto e chiuso col cemento a pronta presa.
«Ma lui adesso avrà fame».
La prima volta che lo si vide girare per la casa era piccolino, così piccolo lungo e sottile da sorprendere appena, non da impaurire. Era color ocra verdastra meno un paio di centimetri smeraldini e gialli cangianti in fondo alla coda, se coda si può dire di un rettile ch'è tutta coda dopo la testa.
Una casa di mill'anni assediata da mura secolari e vecchi alberi e la luce nelle stanze ha l'aspetto della luce sul fondale marino, fluttua, ondeggia, non sta mai ferma e perciò si deve tenere le lampade accese tutto il giorno. A volte è proprio bigia come gli occhi senza luce di uno spettro. Ed è per questo che si deve recitare una formula segreta.
« No, tu non puoi. Tu non credi ai morti vivi».

martedì 20 gennaio 2009

Urban Love


L' amore mi colse tra il primo ed il secondo piano, ma non mi fermai, nemmeno mi voltai, non era tempo per sentimentalismi, lo annotai con calma sul mio cellulare mentre sgambavo lesto verso la fermata del tram in piazzale Corvetto, Milano, o era Bombay? avrebbe potuto essere anche Marrakesh o Santiago o anche meno, una metropoli qualsiasi.
Sapete no? Sono tutte uguali. Comunque sempre di tram si trattava e sempre di corse allo spasimo per arrivare in tempo ad una porta, in quel caso Porta Romana (porta anche tua sorella Olga, se puoi, così ci divertiamo) - si diceva negli anni sessanta - ma naturalmente persi il tram, della metropolitana manco a parlarne, era troppo distante, vado a piedi, mi dissi, prendo una scorciatoia, e subito mi chiesi chissà perchè mi son messo queste scarpe. Domandai, dove mi trovo(? per favore), io perso nella metropoli, ad un biondino che ne sapeva quanto me e me lo disse con un certo garbo, io vengo da fuori sono un po' rumeno, allora lo chiesi ad un altro che sembrava muoversi sicuro, sembrava proprio del quartiere là in via Watt, invece era lui che aveva bisogno di consigli sulla sua mappa, era davvero sconsolato - alla seconda occhiata eraanche un po' maghrebino, ma non puzzava di deserto, nemmeno di campagna assolata, forse sapeva un po' di mare, ma sapete com'è stare su un barcone in procinto d'affondare per ore? Decisi che la prossima volta non mi sarei fatto fregare.
Volevo un milanese puro o quasi. Un ragazzo col ciuffo, a spasso coi cani sembrava facesse proprio al caso mio, s'era mai visto un musulmano con un cane al guinzaglio? No, eh? per loro è carne impura, proprio come quella d'un maiale - voi andreste a spasso con un maiale? Però i cani questa storia dell'impuro mi sa che l'abbiano annusata perchè ringhiano sempre dietro ai maghrebini, dev'essere per una sorta di memoria collettiva, infatti il ragazzo col ciuffo disse no, io non lo so, ma accarezzava i cani, allora io lo guardai meglio, riflettei e gli dissi scommetto che tu sei un tamil, sorrise allegro come solo loro sanno sorridere, iniziando dagli occhi per finire tra i denti, e gli sorrisi anch'io, perchè il catamarano - la barca dei miei sogni - l'hanno inventato loro, di nome e di fatto, e di questo c’era da ringraziarli e da offrirgli un camparino, ma dove avrei potuto trovare un milanese o quasi, a piedi, in giro da quelle parti?
Mi parve chiaro che fossero tutti in fuga nel fragore della strada con le due, tre, quattro, cinque, sei ruote cogli scappamenti fumiganti.
Alla fine d'un paio di chilometri di muro mezzo diroccato che mi separava da chissà quale paradiso nascosto a corredo di quasi dignitose case popolari dalla parte opposta, dovetti scegliere tra il percorso frammentato dai cantieri di destra ed il percorso costeggiato di fabbriche dismesse a sinistra.
Virtualmente caricai un vecchio Carcano '91, innestai la baionetta e partii all'assalto degli sconnessi inselvatichiti da quella specie di solida e tagliente gramigna di città che si nutre d'asfalto, vetro, plastica e cemento. Ma che ci faccio qui? mi domandai, visto che l'avevo quasi dimenticato.
Ormai mi nutrivo d'una disperazione d'ottima qualità dato il luogo particolarmente esistenziale, decisi quindi di cambiare vita e sospinto dalla nostalgia di casa che soffiava ormai come un fresco maestrale, presi la strada del ritorno al mio monoloculolocale pittato fresco fresco di celeste pastello. Mi sarei acquattato sospiroso dietro la porta in attesa dell'amore, pronto di nuovo a scendere o salire le scale al minimo scalpiccìo di quei passi di cui conoscevo la tensione dei glutei sodi e la stupefacente spinta pelvica, sperando che il vicino non se n'avesse a male se gli avrei usato un po' la moglie. Solo un po', niente di più, niente di meno, come in fondo ero convinto facesse anche lui. D’altronde non era più tempo di volare alto e lo stare rasoterra a volte stanca, ci sono sempre angoli da doppiare, ostacoli da saltare, strade da attraversare, quartieri in cui perdersi, e poi chi si ricordava, allora, cos'era l’amore? Lo percepivo come una bella sbornia, un black-out, forse sarebbe stato meglio definirlo un come-in, comunque qualcosa per dimenticare o poco più. E come tutte le sbornie ad un certo punto passa, non necessariamente al mattino dopo, certe volte dura anche un po' di più, ma quando passa, passa. E lascia sempre la solita schifosa bocca amaro metropolitano.


venerdì 9 gennaio 2009

il bianco, il nero #2



Non incontro nessuno. Col cadere della sera compaiono i primi vaghi filamenti di caligine. Il vapore acqueo si condensa nell'aria che si va rinfrescando: l'intera pianura viene avvolta in una fitta nebbia sempre più cupa. Se ne va un altro giorno e come al solito, non finisce con il sorriso. La strada muta e bagnata dalla guazza ha un aspetto ramato, sfuma nell'arancio marcio dei lampioni al fosforo. Nelle tasche dei calzoni troppo larghi, le chiavi, le sigarette, l'accendino, gli spiccioli, risuonano come maracas, seguendo il tempo di una strana ballerina di flamenco improvvisata, spettinata, rossa in faccia ed incazzata, che mi si agita accanto.
Prima di arrivare all'albergo delle puttane entro in un bar. C'è gente abbandonata. Mi giro e mi rigiro di fronte agli occhi spenti dei futili clienti in silenzio tra di loro, immobili ai tavoli, pagine di gazzetta rosa sparpagliata. Mi volto verso la porta d'ingresso per carpire le luci rosse di un'auto fantasma che si allontana là dove dovrebbe esserci la strada. Inciampo di nuovo in un recente pensiero e non sorrido ancora di piu'. Passo una mano tra i capelli rasati e, non so come, mi dimentico di me ma non di lei.
«Io non sogno»
«Come non sogni? Tutti sognano»
«Io non sogno, ti dico»
«Non è che non sogni. Non ti ricordi i sogni che fai»
«No. Io non sogno mai»
«Non devi passare una mano sui capelli appena ti svegli: è come passare una cimosa sulla lavagna», un giorno o l'altro ci dovrò far caso ai primi gesti del risveglio, ma quando mai mi sono svegliato con un sogno in testa? I miei pensieri del mattino fanno sempre il solito rumore, è come una specie di tarlo che gratta, gratta e digerisce nel silenzio. Il mio silenzio. Il suo silenzio.
Ci sono silenzi più bianchi del bianco, ci sono anche rumori rosa, almeno qualcuno lo dice. Ci sono giorni silenziosi e neri come la notte e notti bianche e rumorose rosa all'albergo delle puttane. Ho preso una camera là, perchè lei non ci venisse. Lei mi deprime, ma non riesco ancora a starle lontano. La cura del silenzio cui mi sto sottoponendo durante il giorno passato al suo fianco e gli happenings che mi traboccano dal corpo nelle camera disadorna con le donne tutte uguali, hanno il sapore dell'Ultimo Inverno, il più gelido.
Quindi qualcuno mi dica che la vita è un brutto sogno, cosi' posso andarmene a dormire da qualche altra parte. Io non sogno mai.

lunedì 5 gennaio 2009

il bianco, il nero



Un avvicinamento lento ed appiedato. Ci sono delle piccole strade asfaltate, in mezzo ai campi squadrati e quasi senza fine, delle grandi case monotone ed in apparenza inabitate, lasciate ad una distanza precisa l'una dall'altra, come sentinelle intorno ad una polveriera immensa. Le vecchie e monotone case abbandonate non sono distratte o agitate da presenze, mostrano tutta la decrepita tranquillità del tempo che non è passato invano. Dietro quelle finestre generazioni di mezzadri, contadini, braccianti, garzoni, le loro famiglie, hanno riposato le membra rotte dal lavoro dei campi e si sono riscaldate le mani ed i piedi tormentati dal gelo al tepore dei focarili. Da quegli androni sottostanti i bovi, razza scomparsa di bianchi giganti possenti, uniti dal giogo uscivano trainando i carri e si disperdevano nei fangosi sentieri della campagna. Adesso quel sentiero è una piccola strada asfaltata, poi un'altra, ed un'altra ancora, e tutti s'infilano nei quartieri lontani dal centro brulicante della città. Scandiscono ad intervalli edifici bifamiliari, un po' disadorni, assenti di anima e calore. Piccoli recinti di vita chiusa da un cancelletto, un sogno quasi-borghese costato una vita e forse anche due, qualche volta. Poi è la volta di un ponte che scavalca le rive morte d'un canale in disuso, ormai solo acqua stagnante e puzzolente.
Qualche volta, ma tanto di rado, si può vedere qualcosa: è un momento, un solo momento fugace.
Una rosa bianca spicca nell'anonimo grigiore.
Si può notare che sembra di una grandezza non abituale ed ha l'aria di offrirsi a ciascuno che passa, è perfino troppo bianca, quasi sfacciata e ci si domanda come possa stare dritta lì in mezzo al cemento, senza appoggi, senza fili che la tengano dritta.
Un riverbero di luce a tre falci si fa strada tra gli angoli secchi e smorti per schiarire la scena, se il fiore n'avesse bisogno. Ma l'ora non comanda la luce e non è ancora troppo tardi.
Solo il passante, un passante unico tra le centinaia di auto che si corrono dietro per strada, ha il diritto di chi si presenta ad un appuntamento con quella rosa eccezionale, che possiede tutto quel che c'è di più luminoso, bianca al punto di sembrare immacolata.
Il passante è vestito di scuro ed ha l'aria un po' notturna, quasi funebre. Può essere che si voglia semplicemente affacciare sulla luce, o si affaccia per dispetto alla luce non accettando di dimorare sulla terra?
Un incontro singolare, su una anonima strada di periferia, tra anonime villette men che grigie.

domenica 4 gennaio 2009

striature


Giro dietro l'angolo ovest del bastione, scendo per per un breve pendìo disseminato di rocce rese sdrucciolevoli dalla luce grigia e dal salmastro e mi ritrovo nel parcheggio sul mare.
Una vera sciccherìa. Un gran bel posto per stivare macchine sopra macchine. Un bel colpo d'occhio di lassù sul lungomare, metallo vetro plastica e pneumatici in belle file disposti.
C'è anche un cesso in bella vista in fondo ad una scala. Il classico tocco finale.
Un gabbiano appollaiato come una lanterna sulle mura del castello mi osserva mentre mi allontano. Me ne vado, me ne vado.
Percorro tutto il lungomare con l'aria umida e pesante che mi s'appiccica alle grinze dellla faccia come uno spettro bagnato e freddo. I miei passi risuonano secchi e sordi sul selciato come rintocchi. Vedo una pizzeria che sembra aperta.
Qualcuno dentro canta.
Dietro il bancone un rotondo e rosso forno a legna finto e sfacciatamente a gas. Una donna robusta è lì in piedi e mi da' di spalle, intenta ad infornare un vassoio di pizza, come una madre che rimbocca un figlio nel tepore delle coperte. Canta da sola, con voce profonda e bassa e mentre l'ascolto e l'osservo, le pizze sul banco, il forno, la signora e la sua ninna nanna alla pizza sembrano emanare luce e calore. Il forno, la donna, si fanno sempre più luminosi e grandi fino al riempire il locale ed i miei sensi tanto che comincio a dubitare che ci sia spazio anche per me, là dentro, che possa esistere anch'io, le case, le strade e la notte là fuori. La donna chiude lo sportello del forno ed io temo che si volti e che mi mostri la sua faccia che splende pallida ed enorme come la luna. M'affretto ad uscire incespicando con le mani piene di pizza a taglio che mi fanno compagnia fino alla stazione. Sul treno m'addormento e sogno d'essere un uccello.
Un punkabbestia profumato di strada, simpatico e con due cani più che meticci al seguito, ben più simpatici di lui, mi frega 5 mezzi toscani, un pacchetto di Lucky ed un portachiavi dalla borsa e poi sparisce, mentre io svuoto la vescica facendo l'equilibrista nel wc che sobbalza come uno shuttle al rientro nell'atmosfera.
«Dov' hai passato la notte?», mi chiede lei, «Con amici», rispondo vago, fingendo di non vedere una certa smorfia. Salgo le scale fino alla camera da letto e mi chiudo la porta alle spalle. Mi metto subito a dormire. Che cosa sogno?Ancora uccelli?
Quando mi sveglio non riesco proprio a ricordarmelo, ma le mani mi dolgono come se mi fossi attaccato con forza a qualcosa. Tuttavia con perfetta efficienza mi alzo dal letto, per fare cosa manco lo so. Per abitudine. Per andare avanti. Per ruzzolare avanti. La direzione è quella. Sempre avanti e dritto in fondo al viale.