venerdì 1 dicembre 2006

vecchi castelli





La vecchia nera s’arrampica e romba ch’è una meraviglia, coi cucchiaini della sua iniezione meccanica che si bevono benzina a garganella, derapando con la trazione posteriore ad ogni curva e schizzando sassi e breccia tutt’intorno, mentre mi destreggio nell’evitare agli ammortizzatori le pietre più grandi ed i solchi più profondi. Tengo il volante con finta noncuranza, ma mi diverto, ed anche parecchio. Qualcuno m’ha detto che questo sentiero che s’avvolge salendo è un tratto della Francigena e che il castellaccio era una specie di ostello per pellegrini sulla strada per Roma.
Grazie Qualcuno: non me la potevo perdere un’occasione così.
- Certo, la strada è un po' ridotta male, ma mica si devono far le corse. -
Cuore Nero nemmeno mi risponde. Chissà cosa le passa per la testa.Evito le buche e le scosse di quello che dovrebbe essere un sentiero e che invece è diventato il letto in discesa d' un torrente in secca. Giro intorno all'ultimo tornante della collina sollevando un polverone visibile per tre giorni ed arriviamo al castellaccio.
Non si vede anima viva in giro.
Parcheggio la nera sotto un olivo che deve aver visto il Granduca Canapone all’inaugurazione della Fonderia. Il castello sembra spuntato dalle rocce colore dell’ocra su cui è posato e deve avere la loro stessa età, tanto è decrepito. Ma non è desolato, perchè il giardino all’interno delle mura è in fiore e ben curato. Un paio di cipressi, una bella quercia, alcuni olivi centenari danno riparo a pettirossi e capinere che svolazzano da un albero all'altro mentre qualche gatto sospettoso fa capolino, incuriosito dal trambusto che il nostro arrivo ha provocato. Cuore Nero s'ammansisce e schiocca bacetti al vento per richiamare i mici, ma queste svenevolezze di città i gatti dei castellacci non le conoscono, e la guardano un po' stupefatti, mantenendo le distanze di sicurezza.
La chiave è in un vaso da fiori accanto alla porta, aveva detto quello dell’agenzia, quasi in tono di scusa, porgendomi anche una fotocopia con le istruzioni per arrivare in cima a quel poggio.
Ed anche del castello, c'erano le istruzioni. Girate sempre a sinistra, man mano che salite le scale. E cercate di non perdervi.
Cuore nero non aveva aperto bocca, ma si era impadronita delle istruzioni, ed ora la seguo attraverso un dedalo di scale e corridoi annidati gli uni sugli altri. Moriremo qui d’inedia, lo so.
I soccorsi non ce la faranno mai a trovarci, anche se abbiamo i cellulari, penso.
Da fuori, il castello non sembrava così contorto e nemmeno così grande, ma Cuore Nero avanza decisa, consultando ogni tanto la cartina ed io le incespico alle calcagna per il timore che se mi separassi da lei, non ritroverei più la strada nè per salire di sopra né per ridiscendere di sotto. Mucchietti d’intonaco staccatisi dai soffitti e dalle pareti sono sparsi su una sbiadita guida che una volta doveva essere rossa. Chissà se il padrone di casa conosceva tutto gli angoletti della sua magione. Ne dubito. Cuore Nero fa da navigatrice e borbotta sotto voce. Giriamo a sinistra e poi di nuovo a sinistra e ancora a sinistra. Improvvisamente provo una sensazione familiare, una specie di déja-vu.
E’ come quando seguivo mia nonna con la sua acconciatura a cipolla che incombeva su di me anche a distanza. Eravamo insieme da qualche parte ma non so proprio dove, ed ero ancora piccolo. Penso, mi distraggo e perdo la scia di Cuore Nero che fa capolino dietro l’angolo di un corridoio. Sbrigati, mi dice, che devo fare pipì. Sto per ringraziarla, visto che sono le prime parole che pronuncia nella giornata, ma mi fermo in tempo.
Dove pensi di farla, le chiedo? Se non trovo un bagno la faccio qui seduta stante. E mica siamo a Versailles, le rispondo, potevi farla fuori, prima d’entrare. Mi guarda e mi odia, ma tanto poi le passa. Senza sapere come, siamo arrivati in un salone vasto come un cinema da duecento posti.
Ci soffermiamo un attimo sulla porta e poi entriamo, guardandoci intorno.
La parete a destra della porta è per metà occupata da un albero genealogico, quella a sinistra da un gigantesco camino. Io mi fermo lì davanti. Cuore Nero invece s’infila in una porta piccola e stretta sulla parete opposta e sparisce. Mia nonna da qualche parte alle mie spalle, raccoglie le fiammelle con una paletta ed una scopa. Qualcuno dovrebbe metter fuori quel cane. Non è abituato a stare in casa. Ed il penultimo dei suoi figli, reduce dalla prigionia, se la prende a male per il cane, e la rincorre per tutta la casa con il coltello in mano. Sono mesi che aggredisce la gente in strada, é ritornato dalla guerra e dalla prigionia ombroso come un cavallo pazzo. Appena lo guardano negli occhi o s'immagina che lo facciano, si scatena e visto che tirava di boxe nei medio-massimi prima di andare a finire ad El Alamein, sa anche come fare male. Con mia nonna si vede che non gli bastano le mani.
Forse la nonna doveva misurare le parole per non urtare la sua suscettibilità. Non si mette fuori il cane, e che diamine! Lo scherzo del coltello prosegue in strada, con la nonna che fugge gridando m’ammazza! ma il reduce fortunatamente viene bloccato da una decina di portuali che partecipano al solito torneo di briscola e tressette in una bettola lì vicino. Lo mettono in mezzo e lo fanno nero, con sommo gusto, data la sua fama di fascista, paracadutista e picchiatore. Poi arriva l’ambulanza, un rumoroso e fumoso furgonaccio verniciato male di bianco per coprire il verde dell’US Army. Lo imbracano in una camicia di forza in quattro e quattr’otto. Lo aspettano un bel letto di contenzione ed una bella serie di elettrochoc. Lo scherzo gli costa una decina d’anni al manicomio e gli costa anche una moglie. Un’infermiera del manicomio, una donna che sa il fatto suo e quel che vuole. Firma i documenti necessari e se ne prende la responsabilità. Vedi come va il mondo a volte.
Il fuoco del camino proietta ombre di figure scure sulle pareti e guizza di riflesso sui volti della gente accanto ed intorno a me. Ma quando li fisso quelli distolgono lo sguardo. Ma prima sono stati loro a fissarmi, ne sono certo. Il calore del camino mi picchia sulla nuca mentre il crepitìo del fuoco mi culla. Metà del corpo brucia e metà è gelato. Inquadrata dalla porta-finestra più vicina a me c’è una collina tozza e curva come una specie di molare; un fil di fumo si alza di lassù. Chissà chi ha acceso il fuoco. Era così che ti beccavano alla macchia, seguendo il fumo dei fuochi, dice uno lì accanto. Ma questo è Libero, lo zio partigiano, il terz'ultimo figlio della nonna. Ma non era morto?
- Fatta. –
- Eh? –
- L’ho fatta. C’è un bagno spet-ta-co-la-re. Ha la porta come una cassaforte della Banca d’Italia. Ma che hai? – mi guarda piegando la testa di lato.
- Perché? –
- Hai un’aria strana, come se avessi visto un fantasma. -
- Questo salone. Non so. Mi sento strano, hai ragione. –
- Allora usciamo, andiamocene, no? -
- Sì.Andiamo. -
Sulla porta mi soffermo per dare un’ultima occhiata, ché m’é parso di sentire un brusìo.
Macché brusìo. Le correnti d’aria, le vecchie travi percorse da milioni di tarli, le pareti che si rigonfiano e l’intonaco che si sbriciola. I vecchi castelli respirano come vecchi e catarrosi fumatori.
Usciamo fuori ch’è buio pesto. Non c'è niente che faccia distinguere un’oscurità dall’altra eppure sento quel gran peso che mi s’era attaccato addosso nel salone, scivolar via.
Ci giurerei.
Quel camino aveva il fuoco acceso.

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